BRANO TRATTO DALLA BIOGRAFIA “PINELA” COMMITTENTE PRIVATO

Ancora non mi è chiaro il motivo per cui ho deciso di intraprendere questo viaggio nella memoria. Forse una ragione non c’è oppure è ancora celata fra gli anfratti dell’anima e prima o poi deciderà di uscire allo scoperto per rendersi visibile. E’ una splendida giornata di settembre, il cielo è luminoso e la campagna già veste i colori dell’autunno, dolci e vivaci come disegni di un bimbo. Il silenzio, spento il motore, mi avvolge. E’ il silenzio del primo mattino che germoglia ricordi avvolti in profumi di nostalgia. E’ una sensazione che spesso si insinua tra le gallerie della mente.

Probabilmente è la nostalgia di un tempo che non ho più.
Con passo lento raggiungo il vecchio seminario che ora ha una diversa funzione e mi pare di udire preghiere, canti, urla e schiamazzi che abitavano l’edificio quando ero suo giovanissimo ospite. Salgo sino alla sommità del colle della Berta e tra vigneti e frutteti mi sembra di intuire la presenza del campo di calcio dove spesso padre Arcangelo, un frate dai capelli ricci e biondi e dalla corporatura massiccia poiché era alto quasi due metri, ci portava per disputare infinite e rocambolesche partite. La grande figura di questo padre, che spesso sognavo nelle vesti dell’arcangelo Gabriele, è un ospite fisso della mia memoria perché oltre alla forza possedeva la grazia e la disponibilità di ascoltarti e comprenderti, riuscendo a mitigare l’onda d’urto di rabbie, dolori e melanconie che a volte mi assalivano fra stanze, corridoi e dormitori del seminario.

Di quelle partite una più di altre ricordo perché è stata la prima volta che mi sono sentito re del mondo. Nel corso del tempo ho vissuto altre analoghe sensazioni ma quella è stata la più intensa ed assoluta.

Per tre giorni era piovuto su Rodengo Saiano, sede del seminario. Salimmo al campo fra sentieri che parevano acquitrini e giocammo la partita in un arena fangosa, quasi impraticabile ed io, portiere, parai tutti i palloni scagliati dagli avversari verso la rete. Non mi era mai accaduto perché come portiere non valevo molto. Mentre lasciavamo il campo coperti di fango che asciugandosi pareva diventare ghisa, Padre Arcangelo mi diede alcune pacche sulla schiena in segno di ammirazione per la mia straordinaria prestazione. Giocavo solo per sottrarmi alla noia che si addensava fra gli ambienti del grande edificio. Ero entrato in seminario quasi per caso o per destino, qualora il caso sia un parente stretto del destino.
Durante l’ultimo anno delle elementari io ed i miei compagni ricevemmo la visita di un frate francescano che ci descrisse in modo affascinante e coinvolgente la via più breve per beneficiare della costante benedizione di Dio: entrare in seminario e porre le fondamenta per diventare sacerdoti. Per stimolare il nostro desiderio ci invitò insieme ai genitori a visitare, in una sorta di pellegrinaggio, Sotto il Monte, paese natale di Giovanni XXIII, da tutti conosciuto come il Papa buono.

Per mia madre fu un viaggio bellissimo denso di commozione e spiritualità.
Al ritorno si convinse che la mia entrata in seminario fosse un segno del volere divino. Io avevo dieci anni e non avevo idea di che cosa fosse il seminario, la vocazione e la vita sacerdotale.
Avevo altri pensieri, sicuramente più banali ma più coerenti alla mia età.